“Giornale dei lavori” di Paolo Barbaro [Abbot edizioni]

Il tema del lavoro in letteratura durante il miracolo economico italiano (breve e incompleta introduzione)

Nel 1961 sul «Menabò», rivista letteraria fondata nel 1959, Elio Vittorini lanciò il dibattito sul rapporto tra “Industria e letteratura”, denunciando un ritardo da parte della cultura umanistica nei confronti dei profondi cambiamenti prodotti dalla cultura scientifica-tecnologica.

Infatti l’Italia della seconda metà del Novecento si era trasformata in un vero e proprio “laboratorio sociale”. I processi di modernizzazione la investirono in una maniera tanto repentina quanto traumatica, arrivando a intaccare il sostrato sociale oltre a quello economico. Un mutamento radicale dunque – o meglio “un miracolo economico” come viene definito – che come tutti i miracoli risultò irreversibile cambiando profondamente i modi di vita, l’immaginario, i rapporti sociali e lavorativi.

Il volume del «Menabò» menzionato recava al centro un lungo poemetto di Vittorio Sereni Una visita in fabbrica (poi inserito in Strumenti umani pubblicato nel ’65 da Einaudi). Prima del poemetto Einaudi aveva pubblicato il racconto lungo di Italo Calvino La speculazione edilizia con il suo protagonista Quinto Anfossi che si sforza di abbracciare l’ideologia modernizzatrice e cinica del progresso. Fino a uno degli esiti più felici come Memoriale di Paolo Volponi e si può continuare fino ai giorni nostri con La dismissione di Ermanno Rea; Le risorse umane di Angelo Ferracuti; Mi chiamo Roberta e guadagno 250 euro al mese di Aldo Nove; Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria di Michela Murgia; Works di Vitaliano Trevisan; Sottofondo italiano di Giorgio Falco, solo per menzionarne alcuni.

Alle sollecitazioni di Vittorini, di una cultura e letteratura che appunto abbracciasse il cambiamento, si levò il grido di denuncia di Pier Paolo Pasolini, che vide nel progresso il consumarsi di un «genocidio culturale», quello della cultura subalterna, contadina e artigianale.

In questo dibattito, che tutt’ora non si è esaurito, Abbot edizioni ha riportato all’attenzione Giornale dei lavori di Paolo Barbaro, pubblicato nel 1966 da Einaudi grazie al sostegno di Italo Calvino.

 


Giornale dei lavori di Paolo Barbaro

Paolo Barbaro, pseudonimo di Ennio Gallo, ingegnere di professione che da scrittore ha preferito mantenere il riserbo sulla sua identità, mescola la sua esperienza autobiografica con un’intensa riflessione sul lavoro.

«Il lavoro era quello che aspettavamo da un pezzo: un grosso appalto di centrali, dighe, gallerie. Media e alta montagna, fra 700 e 2000 metri sul mare. Che fosse, al solito, in un posto che conoscevamo appena sulla carta, non importava; il mestiere è così non si bada ai paesi»

Giornale dei lavori è appunto una registrazione degli sviluppi che accompagneranno la costruzione di una diga (probabilmente nel Nord-est italiano). Il distacco dalla realtà, l’ingenuità con cui il lavoro viene iniziato («non sapevamo invece qualcos’altro: che stesse proprio allora cominciando il boom a casa da noi») subirà un brusco cambiamento di prospettiva: la scoperta di come il progresso richieda un prezzo che si è costretti a pagare con le vita di altri e con la devastazione del paesaggio naturale. Una rassegnazione cinica sull’inevitabilità degli eventi si accosta, però, a un più nascosto rammarico sul grado di responsabilità per le azioni condotte avanti («Ora mi pareva che ci fosse qualcosa di più profondo, alla radice stessa degli elementi, di guasto di interrotto di manomesso»).

Interessante soprattutto del romanzo è la capacità dell’io narrante di astrarsi, da ciò che lo circonda e il cui ruolo lo richiama, per cercare di spalancare le pagine, e quindi il suo sguardo, dal contingente al fine di inserire riflessioni sul suo tempo, scandagliandolo giorno per giorno, e sul tempo in generale. Ed è proprio il tempo la coordinata qui scissa, studiata, combattuta che separa il prima dal dopo, dal tempo naturale a quello industriale, dal tempo ciclico, rassicurante, lento da quello moderno, umano e quindi perituro, veloce, repentino e irreversibile che taglia la storia e la realtà tutta non senza vittime.

«Chissà, mi dicevo inoltrandomi nella nuova galleria a pochi metri da loro, forse fra milione di anni qualcuno si ritroverà, qualcuno per caso, magari alla scoperta di civiltà scomparse; e scriverà che nella nostra civiltà, una civiltà di passaggio, pur di finire si costruiva sopra le loro ossa».

Paolo Barbaro riesce secondo me a collocarsi al centro del dibattito Vittorini-Pasolini, accogliendo il progresso, occupando un ruolo attivo all’interno di questo, ma guardandolo con diffidenza e arretrando, quasi, per osservare l’inevitabile precarietà di tutto quello che facciamo e in fondo siamo.

Tra le letture più belle del 2020.


Ringrazio di cuore Abbot edizione per la copia omaggio.

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