“Heridas. Ventidue racconti dalla Colombia” (Gran vía)

Heridas in spagnolo significa “ferita” ed Heridas. Ventidue racconti dalla Colombia è una lunga ferita ancora non sanata, più una piaga, che segna un solco profondo tra la vecchia e la nuova generazione di scrittori colombiani. La raccolta di Gran vía della meravigliosa collana Dedalos – che per gli amanti della letteratura sudamericana è punto di riferimento imprescindibile per la scoperta delle nuove voci letterarie di un determinato paese – uscita a dicembre del 2019, raccoglie al suo interno le nuove leve della letteratura colombiana: scrittori tutti giovanissimi e inediti in Italia.

È stato inevitabile, come ogni volta che mi approccio a queste raccolte, riflettere sulle mie conoscenze nell’ambito della letteratura colombiana, finendo per realizzare che fossero estremamente scarse. In soccorso giunge la prefazione di Maria Cristina Secci, curatrice della raccolta, che dà un quadro della situazione storico-letteraria in Colombia, delineando un contesto e disegnando, appunto, un solco profondo fra vecchia e nuova generazione di scrittori, il cui discrimine è la trattazione del tema della violenza. Nei primi la letteratura si distingueva in narrativa della violenza e nella violenza; nei secondi la violenza sembra essere rimossa.

Prima di parlare specificatamente della raccolta, potendo confrontarla con le uscite precedenti (Vidas, Calles, Tierras, Tintas), è evidente che poter leggere racconti di scrittori diversi significa ogni volta approcciarsi a una lettura estremamente eclettica, facendo la conoscenza di tante voci diverse fra di loro. Oltre alla scoperta di nuove penne, si aggiunge la curiosità di trovare tematiche comuni e una tendenza stilistica che possa dare un quadro omogeneo della produzione di un paese.

In Heridas questo processo è stato quasi impossibile, la ricerca di leit motiv fallisce di fronte a ventidue racconti che non rappresentano un coro polifonico, ma un marasma caotico in cui il lettore può dar conto solo alla singola voce. Questo aspetto è quanto mai stringente: l’assenza di un panorama unico, seppur cangiante, in ogni caso coerente, mostra quanto gli sconvolgimenti e le divisioni interne di un paese finiscano per riflettersi sulla sua stessa letteratura.

In effetti, come ho scritto prima, il tema della violenza può essere considerato tema comune, ma in ogni caso è un tema che si riscontra per assenza. La violenza è una violenza mai esplicita, che non trova spazio nella scrittura, ma costantemente percepita: ad esempio nei rapporti umani in cui sempre imporsi l’individualismo (come in Cinghiali di Antonio García Ángel, il racconto che apre la raccolta) o dalla natura che minacciosa attende un passo falso per prendere il sopravvento (come in La rumba, son, palo muerdo di Pilar Quitana). Un ritorno del rimosso che non si esplicita nella pagina, ma rimane nei confini, tra le righe, come un memento di un passato che potrebbe tornare (producento anche risultati stranianti). Come fa notare Francesco Fava nella postfazione, anche la politica è ferita che viene nascosta e lo sguardo degli scrittori si ripiega nello sviscerare i rapporti umani e intergenerazionali: quello che emerge è un panorama tossico di relazioni tossiche. Esseri umani sperduti, senza punti di riferimento, che hanno perso la bussola dei valori etici per lasciare spazio o ad appetiti quasi ferini (fino al limite del tabù suggerito come in L’anno nuovo di Gilmer Mesa o l’allucinato Baila en el bosque di Andrés Felipe Soriano) o alla competizione vuota e perniciosa che ha come fine l’ultimo la sconfitta dell’altro per puro gioco di potere (evidente in La pianta, la piantina di Andrés Mauricio Muñoz e in Sbronza di Carolina Cuervo). Il traffico di droga che ha devastato la Colombia non è centrale, compare sì, ma come fenomeno accessorio alla narrazione, completamente surclassato dall’individualità (come in Fausto di Patricia Esquivel), come non viene a mancare una critica nei confronti del panorama accademico-culturale, degli ambienti intelletuali in generale (come in Educazione sentimentale di Luis Noriega.

Quel che forse restituisce questa raccolta è la precarietà di un nuovo equilibrio stabilito, che rischia di crollare da un momento all’altro perché non ancora cosciente del proprio stato e non supportato da valori etico-sociali imperituri su cui rifondare la società colombiana. Questa raccolta è un quadro inquietante di una heridas storica ancora in via di guarigione, a rischio di infezione, la cui precarietà innerva la narrativa breve nel disperato tentativo, ancora in atto, di ricucirla con i pochi mezzi messi a disposizione.

 


 

Ringrazio come sempre Gran vía per darmi la possibilità di avere sempre uno sguardo aggiornato sulla situazione della letteratura sudamericana, scoprendo penne inedite e spesso straordinarie.

Qui vi ho parlato di Calles. Tredici racconti dalla Bolivia

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