
Le solitarie di Ada Negri
Le solitarie è la prima raccolta di diciotto novelle pubblicata da Ada Negri per i tipi di Treves nel 1917.
Nella Lettera aperta, che introduce la raccolta, all’amica Margherita Sarfatti racconta l’antecedente che l’ha portata a pubblicare la sua prima opere in prosa:
Lavoravamo insieme, mostrandoci a vicenda le pagine liriche ancor tutte calde della prima impronta del pensiero. Per cambiare, un giorno, ripescammo e rileggemmo un mio grigio, torbido manoscritto di prose. Non lo amavo: lo volevo distruggere. Ma tu mi dicesti: Perchè?… Grigie fin che vuoi, queste novelle. Ma sono una parte viva di te.
Ada Negri nasce poeta e prima delle Solitarie aveva dalla sua già cinque raccolte di poesie pubblicate. È interessante però come ci sia una presa di distanza verso la produzione narrativa, nei confronti di quel grigio, torbido manoscritto lasciato da parte che sembrava essere destinato a rimanere sconosciuto se l’amica non l’avesse spinta a dargli una possibilità. Nonostante questo, poi Negri investì molto sulla sua produzione letteraria in prosa, soprattutto se gli anni che vanno dal 1917 al 1932 sono da considerarsi come i più luminosi della sua produzione. Fa sospettare che nasconda una certa dose di ironia, una captatio benevolentia forse, oppure un’anticipazione della crociana distinzione secondo la quale la letteratura è da contrappore alla poesia sempre in termini negativi.
Un grigiore malinconico diffuso in effetti c’è, tanto da avvicinare le tematiche di questa raccolta al crepuscolarismo, di cui è considerata esponente, ma dal quale c’è un evidente scarto. Non che bisogna inscrivere, o spingere a forza, la produzione di una scrittrice all’interno del più noto canone letterario costruito a guisa della produzione maschile, ma bisogna sempre tenere a mente che «le scrittrici italiane hanno avuto e hanno un rapporto con la tradizione letteraria italiana sovente conflittuale ma anche d’amore, in quanto essa è stata modello da cui prendere le distanze, ma insieme da rinnovare a partire dalla propria esperienza, che si è tradotta in stili di scrittura innovativi e originali»[1].
In particolar modo in queste novelle è evidente come la povera e grigia quotidianità sia protagonista raccontata però da uno stile di scrittura debitore dell’esperienza poetica, contrasto tipico del crepuscolarismo, ma il racconto di solitudine è quello di un soggetto che spesso faceva da fondale o che veniva usato come escamotage narrativo: la donna per l’appunto. Nella Solitarie la donna è desiderante e pensante, vittima o carnefice, ma sempre protagonista. La storia della vita della scrittrice, cui potete avere un assaggio nella biografia riportata nell’Enciclopedia della donne oppure navigando nell’approfondito sito dedicato ad Ada Negri, è fondamentale, come per gran parte delle scrittrici dell’epoca[2], i frammenti della vita vissuta vengono estratti e trasformati in materia narrativa e letteraria, in poche parole l’autobiografismo o l’esperienza diretta di certe esistenze sono centrali per dare vita a ritratti di figure femminili diversissime fra loro, ma tutte che si trovano a doversi confrontare con l’ingiustizia, subita silenziosamente o ferocemente combattuta.
Nel corso della stessa raccolta sembra che Ada Negri affini gli strumenti, il narratore si evolve, muta posizione, da onnisciente, distaccatamente naturalista, alla maniera dei narratori ottocenteschi, si avvicina, affonda nel racconto tramite il discorso indiretto libero o addirittura ripiega addentrandosi nel soliloquio: la soggettività, e quindi la psicologia dell’io parlante, si fa diretta. Queste solitarie, sono tipi diversi fra loro, ma tutte quante, da questa peculiare e ingiusta condizione di solitudine, riescono ad appropriarsi di uno spazio libero in cui guardarsi nella loro autonomia (ossia separata da qualsiasi appannaggio maschile). Anche i soggetti evolvono, è come se dalle prime novelle si creasse uno scarto, un’inarcatura, le personagge si fanno volitive, scalpitano fino a compiere gesti feroci ma liberatori (è bene ricordare che questa raccolta è uscita più di un secolo fa e parla di aborto, violenza fisiche e sessuali, menopausa, prostituzione, suicidio, tradimenti e uxoricidio, inteso nell’accezione generale di uccisione del coniuge).
Ada Negri è un narratore gelido, non mostra pietismo nei loro confronti né cieco sostegno a priori, non ritrae queste donne né come eroine né come modelli cui fare riferimento, sono donne vive sì, ma spesso prive di ambizioni, di voglia di emanciparsi, subiscono per lo più il loro destino e sono agite, prendono decisioni solo se spinte da altro: la loro volontà spesso si attiva solo con il senno di poi e mai a priori. La vera amarezza, il fondo di malinconia onnipresente, è dettato proprio da questo: il danno subìto è quasi sempre il fattore che le porta ad agire e, solitamente, troppo tardi. Soprattutto nei primi scritti delle Solitarie, volendo creare uno scarto dal modello della femme fatale o della donna angelo, la figura femminile letteraria viene demistificata, la bellezza esteriore non è più prerequisito necessario per diventare soggetto di una narrazione letteraria, Negri ritrae solo donne comuni perché quello che conta è immortalare la verità di un’esistenza qualunque, e quindi che appartiene a tutte. Sostanzialmente nel racconto del grigiore esistenziale di queste personagge la critica sociale non va ricercata in quello che dicono o provano, ma in ciò che accade loro, in quello che lo sguardo in filigrana dell’autrice vuole far vedere, nella rappresentazione della loro condizione di solitudine assoluta per la colpa di essere un’irregolarità rispetto al sistema, a livello sociale o anche fisico, di essere la polvere da sempre nascosta sotto al tappeto che c’è e c’è sempre stata. La scrittrice stessa lo dice, le Solitarie sono «umili scorci di vite femminili sole a combattere: malgrado la famiglia, sole: malgrado l’amore, sole: per propria colpa o per colpa degli uomini e del destino, sole. Le vidi, queste donne. Le conobbi, le studiai, le riprodussi, cercando di attenermi il più crudamente possibile alla verità. Ahimè!… Troppe volte la verità è più amara di un tossico»[3].
Bisogna ricordare anche la forte partecipazione politica di Ada Negri, e di molte donne nel decennio pre-fascista, al socialismo. La lotta di classe, il rifiuto a qualsiasi forma di gerarchizzazione, allo scarto, al divario delle condizioni, tra poveri e ricchi, tra chi vive in provincia e chi vive in città e, di conseguenza, tra donne e uomini sono elementi che tornano ma sempre da corredo, mai effettivamente approfonditi, più scenografie che hanno la capacità però di registrare la condizione della donna in rapporto al mondo lavorativo e quindi in rapporto alla società in generale. Certo, resta il principio, che poi verrà esasperato durante l’epoca fascista, della donna che, come aspirazione massima, può ambire solo a due ruoli, quello della sposa e della madre, ma un sarcasmo latente conduce a una vera e propria demistificazione di questi stessi ruoli, mostrati spesso nel loro squallore, svestiti di quella falsa promessa di realizzazione e felicità.
Valeria Palumbo offre un’interessante disamina su come la tematica del lavoro, e del rapporto fra donne e fabbrica, emerga dalle Solitarie di Ada Negri: «Non c’è alcun orizzonte di lotta o emancipazione nella loro scelta. Il lavoro si accetta, perfino si desidera. Ma è degradante. Il sesso, poi, è stupro o sottomissione. Tutto, per queste donne, è sacrificio e povertà»[4]. Nel suo saggio, che non è di pura critica letteraria, ma storico-letteraria, compara dati storico-statici con la rappresentazione delle donne nei romanzi. «Nel 1903 le operaie erano […] il 39% della forza-lavoro. […] Una percentuale alta, che però non tiene in conto le tante donne che lavoravano a cottimo e in forma precaria. […] Le nubile o le spose “tardive” erano più numerose di quel che si pensi. E questo mette in luce diversi obiettivi delle rivendicazioni dei cattolici e dei reazionari che chiedevano di allontanare le donne dalle fabbriche in quanto luoghi pericolosi per la loro moralità e spingevano il lavoro a domicilio»[5].
In questa recensione mi soffermerò su tre novelle per sostanziare quanto precedentemente spiegato e dunque offrire un primo sguardo su ciò che poi si andrà a leggere. Racconterò tre novella per intero, dunque, per chi non vuole avere alcuna anticipazione, invito a fermarsi qui.
Il posto dei vecchi
Il racconto di apertura della raccolta, Il posto dei vecchi, è tra i più amari dell’intera raccolta in cui è evidente un certo rimando autobiografico alla figura della madre della scrittrice, Vittoria Cornalba. La figura materna torna spesso nei suoi scritti, la terza raccolta pubblicata nel 1904 si intitolerà proprio Maternità, ma basti leggere la poesia I sacrifici che divisa in tre parti, ripercorre le tappe fondamentali della storia di Ada Negri. La prima sezione della poesia reca come sottotitolo La maestra, una figura centrale per la scrittrice e che tornerà anche in questa raccolta, e chiude con La fidanzata, ma la seconda parte si intitola proprio Madre:
Vedova, lavorò senza riposo
per la bambina sua, per quel suo bene
unico, dà lo sguardo luminoso;per essa sopportò tutte le pene,
per darle il pan si logorò la vita,
per darle il sangue si vuotò le vene.[…] Batte or la pioggia dal rovaio spinta
ai vetri de la stanza solitaria
ove la madre sta, tacita, vinta:schiude essa i labbri, quasi in cerca d’aria;
ma pensa: “La diletta ora è felice… “.
E, bianca al par di statua funeraria,quella sparita forma benedice.[6]
Da tenere in considerazione è che il primo termine per caratterizzare la madre riguarda il suo essere vedova, cui seguono parole chiave come riposo, pene, sangue, solitaria, tacita, vinta. Costante resta l’accettazione del sacrificio, l’annullamento di sé, la consunzione fisica per il bene dei propri figli, con la speranza che questi possano avere un futuro migliore.
Se da un lato c’è una visione quasi eroica del sacrificio di sé in nome dei propri figli, dall’altro nella novella Il posto dei vecchi Negri vuole, come aveva premesso, attenersi il più crudamente possibile alla verità. La protagonista Feliciana non è eroina, nel racconto mostra una vita non vissuta, una vita subita in nome del sacrificio e della sottomissione a favore di due figli che, una volta anziana e incapace di lavorare, le fanno sentire solo il peso della sua esistenza. Si può sovra-estendere il messaggio oltre all’appartenenza di genere, centrale è la critica a una società che crudelmente considera l’individuo, donna o uomo che sia, solo in base alla sua forza produttiva, cioè in quanto capitale umano. La vecchiaia, che inevitabilmente arresta il processo di produzione e rende la persona inabile al lavoro (o meglio le persone povere al lavoro di fabbrica), conduce all’emarginazione, alla solitudine appunto.
In questo racconto Negri mostra forse uno dei passaggi di scrittura tra i più virtuosi, riuscendo a raccontare la menopausa e come era percepita nel giro di poche righe:
A poco a poco le insonnie cessarono, il sangue si calmò, i nervi si distesero in un opaco equilibrio, una rilassatezza giallognola fiaccò i muscoli del corpo e del volto – e Feliciana fu vecchia.[7]
Nella nebbia
Racconto interessante e curioso è il secondo, Nella nebbia. La protagonista Raimonda, dal volto sfigurato a causa di una caduta sulla brace ardente quando era piccola, viene presentata come una donna piena di solarità, inspiegabile agli occhi di amici e parenti che considerano il suo aspetto fisico compromettente per il suo futuro (nell’ottica ovviamente che il destino di un donne è sempre quello di sposa e di madre). La gaiezza che la contraddistingue è solo una maschera per nascondere il disagio dovuto alla sua condizione fisica:
Vi è, invece, la tragedia muta, sorda, costante, fissa, che ha l’inesorabilità d’un cancro. Non v’è scampo contro di essa. Non v’è forza d’oblio che possa dimenticarla, o di dominio che possa vincerla.
In tale stato viveva Raimonda. Non lasciava, tuttavia, trasparire agli uomini se non quel ch’era impossibile nascondere: il marchio del viso.
Ella si sentiva isolata. Fra il suo fluido e il fluido altrui s’interponeva un divieto. Quel divieto la disonorava come una condanna. [8]
Ecco che ritorna il sentimento di solitudine, che è emarginazione inflitta dalla società. Ma Raimonda è donna che non si scherma, osserva e studia il panorama umano che ha davanti, e nel pieno dei suoi anni non è indifferente alle relazioni che iniziano a germogliare fra colleghi:
[…] Nel laboratorio di macchine e strumenti fotografici, dove Raimonda era entrata quale dattilografa, ella, intorno a sè, fra i compagni di lavoro, non aveva veduto che amore, illusione d’amore, menzogna d’amore.[9]
Inizia a bramare l’amore, la passione più che il sentimento quindi, lontana da ogni visione idilliaca e romanticizzata, pura e casta, antepone un desiderio tutto fisico e sensuale.Camminando nella nebbia che dà titolo alla novella, dove può nascondere il suo volto, viene inseguita da un uomo. Nonostante la piega inquietante, ossia quella di una donna inseguita nella nebbia da un uomo, la reazione della protagonista è inaspettata. È il momento in cui lei, lontana dall’essere vittima, di fronte al tentativo forzato di baciarla risponde con decisione, corona quel magma di passioni e desideri che aveva visto come irrealizzabile, di fare suo quel suo sogno di “amore” che le era stato da sempre negato:
Trasse a sé la fanciulla pel braccio, cercò, avido, la bocca, senza vederla; e, attraverso la veletta, la baciò.
Con sua immensa maraviglia, il bacio gli fu reso.
Ladra d’amore, sì, ella era; e sapeva e godeva d’esserlo, chiudendo in quell’attimo l’intera vita di donna, accumulando in quell’attimo sogni, desideri, brividi, carezze, impeti di dedizione, voluttà di sensazioni, tutta la occulta parte di sé alla luce spietata del sole non aveva diritto d’esistere.[10]
La donna qui viene rappresentata non come succube delle passioni maschili, al contrario, come padrona anch’essa, creatura desiderante e passionale.
Anima bianca
Come è evidente nel primo racconto si parla di un’operaia, nel secondo di una dattilografa. Tralasciando l’insieme dei lavori che le donne svolgevano nella realtà rurali (lontane dalla rappresentazione mite e quasi magica delle pastorelle o contadine che ne dà Segantini nei suoi quadri), le donne di inizio Novecento potevano svolgere effettivamente questi lavori: l’operaia (per lo più di fabbriche tessili), la dattilografa e una terza professione, che sarà protagonista del racconto Anima bianca: la maestra.
Sempre nel saggio di Valeria Palumbo, ci viene raccontato di come «nonostante un ostracismo sociale pesantissimo, le maestra a cavallo tra Ottocento e Novecento divennero sempre più numerose. […] La scuola normale, che formava appunto le insegnanti, fu spesso l’unica possibilità per le ragazze che volevano studiare. Sono state queste ragazze a insegnare a leggere e a scrivere ai bambini dei più sperduti comuni di Italia». Il problema è che spesso queste ragazze, nubili, venivano mandate nei più sperduti comuni e, proprio perché sole, economicamente indipendenti, senza marito e senza un padre a comando, suscitavano sospetto nella comunità.
All’interno di questa immagine della maestra non si può menzionare un caso di cronaca che aveva investito alla fine dell’Ottocento tutta la nazione e che influì profondamente anche sulla produzione giornalistica e letteraria femminile: il caso di Italia Donati.
Ora particolarmente sconosciuto ai più, al tempo fu uno dei più importanti casi di cronaca, in particolar modo perché il «Corriere della Sera» aprì un importante indagine sul caso, cui fece seguito un famoso articolo che Matilde Serao, nel «Corriere di Roma», gli dedicò, dal tuonante titolo Come muoiono le maestre. Il caso per molto tempo fu al centro del dibattito pubblico.
«Nei primi giorni di giugno 1886, giunse da Pistoja al nostro giornale la notizia secca secca che una maestra comunale in un paesetto di montagna, insidiata nell’onore, si era uccisa in un momento di disperazione. È noto che le povere maestre, nei piccoli comuni, sono spesso oggetto di indegne persecuzioni, che le pongono nell’alternativa di darsi al prepotente del luogo o di morire di fame. […] A nostre spese, quindi, mandammo un nostro redattore, Carlo Paladini, in Toscana, ordinandogli di fare un’inchiesta diligente. Ne venne fuori una storia tanto piena di dolore che quanti la lessero, ne piansero.»[11]
Il caso di cronaca è ben più lungo, ma volendo riassumere la vicenda, dopo essere stata accusata di essere la “terza donna” del sindaco del paesino in cui era stata mandata a insegnare, Italia Donati, per sfuggire al disonore che lei e la sua famiglia stavano subendo, si era tolta la vita. L’autopsia confermò la sua illibatezza. Per chi fosse interessato ad approfondire la vicenda, può trovare un’attenta ricostruzione fatta sempre dall’Enciclopedia delle donne. Il caso di cronaca, oltre a influire su una giornalista e scrittrice come Matilde Serao, fu trattata anche da scrittrici quali Ada Negri, appunto, e Maria Messina.[12].
La figura della maestra era dunque socialmente problematica, come già detto, perché si trattava di una donna sola, nubile, colta fuori dal nido paterno ed economicamente indipendente. Ada Negri, raccontando la storia della maestra Rossana, non si risparmia. Inizialmente presentata come una ragazza innocente e amante del suo lavoro, guarda al mondo senza sospetto o malizia, con un’innocenza e un entusiasmo che tradiscono la giovane età. Ama il lavoro che fa, ossia insegnare a una classe di bambini scalmanati e poveri che nella bella stagione si assentano perché costretti a lavorare ai campi insieme alle famiglie.
I suoi spostamenti sono sempre gli stessi, casa e scuola, e per farlo deve percorrere un sentiero all’interno di una piccola foresta di montagna ma:
Silenzio selvaggio: solitudine d’acqua: solitudine di foresta. Ma ella non temava di nulla. Era di quella terra, ne conosceva ogni albero, ogni macchia. Che avrebbe potuto accaderle?[13]
Ribadendo l’isolamento in cui vive, Ada Negri non manca di approfondire la condizione delle maestre italiane:
Amiche non ne aveva. Le altre maestre del paese, dei vicini villaggi? Niente, niente. Legate al loro lavoro dalla catena di ferro della necessità. Ma spostate, tutte, o quasi.
Chi sa perché nelle campagne la maestrina è, il più delle volte, una spostata? […] Per ognuna, la scuola era il mezzo per guadagnarsi il pane, ma l’anima loro ne viveva lontana, come quella d’un incredulo dal raggio della grazia.[14]
Rossana è giovane e inizia a ricevere attenzioni non gradite che declina ogni volta. Le avances degenereranno in violenza. La descrizione che la scrittrice fa è cruda e carica di denuncia, sopratutto perché pone la violenza sulle donne su un piano ancestrale, il ripetersi di un male lungo la secolare asse del tempo che non è mai stato estirpato:
Fu una lotta originaria – senza pietà nel forte, senza speranza pel debole – che forse, nei tempi dei tempi, quelle selvagge foreste avevan vista combattere fra il maschio avvolto di pelli caprine e la femmina solo coperta del manto de’ suoi capelli. Tale si rivelò l’amore alla maestra di prima elementare, che aveva l’anima candida d’un bambino appena nato, e non sapeva d’avere un corpo.[15]
La novella non si chiude dopo lo stupro, è nel senno del poi che si concentra la vera denuncia all’ingiustizia e all’omertà. Rossana inizia a deperire, perde ogni sprazzo di vitalità e a questo punto Negri interrompe il racconto, l’ultima parte della novella è separata da uno spazio bianco: un lungo silenzio che crea uno spartiacque. La psiche di Rossana, precedentemente protagonista del racconta, è stata totalmente silenziata. Al suo posto subentra il punto di vista del paesino.
Deperì. Le donnicciuole sussurravano fra loro che alla maestra Rosanna s’era guastato il sangue, in conseguenza d’uno spavento preso, del quale nessuno conosceva la causa, del quale lei stessa taceva ostinatamente la causa: e le più superstiziose parlavano di stregoneria. [16]
L’allontanamento del punto di vista dal soggetto narrato subisce un ulteriore scarto, non si rivolge più alle persone e si spalanca sul paesaggio naturale, l’unico soggetto rimasto dopo il funerale di Rossana. Resta la tomba e resta la foresta, che la maestra non aveva mai temuto. Resta la neve, il silenzio, il corpo – che la protagonista aveva scoperto di avere proprio nel momento in cui si era consumata la violenza. Ora tutto è bianco, è puro perché nascosto. L’ordine sembra essersi ristabilito e la ciclicità della vita, ignara, immemore, inesorabilmente continua:
presto sopravvennero i primi lavori nei campi e nelle vigne; e quando primavera fece per incanto brillare come smeraldi le folte erbe fra le croci, Rosanna era già dimenticata. [17]
[1] Laura Fortini, Critica femminista e critica letteraria in Italia, in Studi italiani, vol. 65, n° II, p. 178 (Autunno 2010).
[2] Diversi sono i saggi sull’autobiografismo o scrittura del sé delle scrittrici italiane del Novecento, che svilupparono una peculiare unione di esperienza, tutta femminile, e scrittura letteraria, quasi da costituire un genere precipuo della letteratura d’autrice: da Sibilla Aleramo di Una donna (1906); alla stessa Ada Negri di Stella mattutina (1921); da Anna Maria Zuccari, alias Neera, di Una giovinezza del secolo XIX (1919) a Grazia Deledda di Cosima (quasi Grazia) (1936); fino a giungere agli esempi più famosi, semplimente perché vincitori di premi letterari prestigiosi quali il Premio Strega o il Premio Viareggio, come Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (1963); Poveri e semplici di Anna Maria Ortese (1967); Ritratto in piedi di Gianna Manzini (1971); Le quattro sorelle Wieselberger di Fausta Cialente (1976), Una giovinezza inventata di Lalla Romana (1979).
[3] Ada Negri, Lettera aperta, in Le solitarie (Treves 1917).
[4] Valeria Palumbo, Non per me sola. Storia delle italiane attraverso i romanzi, (Laterza 2020), p. 32.
[5] Ivi, p. 33.
[6] Ada Negri, La tempesta, (Treves 1985).
[7] Eadem, Le solitarie, Fve editore 2020, p. 18.
[8] Ivi, p. 29.
[9] Ivi, p. 30.
[10] Ivi, pp. 32-33.
[11] Il processo per la morte d’Italia Donati, in «Corriere della Sera», 28 aprile 1887, p. 1
[12] È possibile approfondire questo argomento leggendo l’articolo di Anna Lo Piano su Serao, Negri, Messina: tre racconti sulla maestra su Cattedrale.
[13] Ada Negri, op. cit, p. 59.
[14] Ivi, p. 60.
[15] Ivi, p. 63.
[16] Ivi, pp. 64-65.
[17] Ivi, p. 66.