Nefando di Mónica Ojeda.
Profanare i tabù, guardare oltre gli elefanti
Nefando, Mónica Ojeda (Alessandro Polidoro Editore, 2022). Traduzione di Massimiliano Bonatto.
La poesia che vale veramente è quella che ti fa cadere. Impossibile non uscirne rotti.
In un’intervista rilasciata a El Pais nel 2018 Mónica Ojeda, parlando delle poesie di Enrique Verástegui e dell’opera di Angélica Liddell, sembra raccontare la propria poetica:
E cos’è una letteratura estrema se non quella che lavora con l’istinto indomito della parola? Poetiche che si immergono nel pornografico – la barbarie del desiderio – e non nell’erotico. […] Non fanno l’amore con la scrittura, ma la sodomizzano, cioè desacralizzano la parola e la profanano per estrarne i veri significati.
Il concetto di desiderio, o meglio delle barbarie del desiderio è l’elemento che crea punti di connessione tra le opere dei Ojeda, non meno della riflessione sulle potenzialità del linguaggio che viene portato al suo limite di significazione e intelligibilità per dimostrare l’inadeguatezza.
Si adatta particolarmente bene la definizione che Giorgio Agamben dà in Homo sacer di profanazione: «nella vita dei concetti, vi è un momento in cui essi perdono la loro immediata intellegibilità e, come ogni termine vuoto, possono caricarsi di sensi contraddittori». Alla base del gesto di profanare è posto un particolare modello linguistico che ha come obiettivo quello di ignorare la «separazione» e «desemantizzazione» o piuttosto di farne un uso diverso, dato che profanare significa «restituire all’uso comune ciò che era stato separato nella sfera del sacro».
Forse è questo il punto nella scrittura di Ojeda, un gioco di profanazione che instaura nel processo di scrittura con il lettore che – calato nelle zone più oscure, perturbanti, sconvolgenti del desiderio – viene costretto a guardare l’orrore di un realismo crudo e schietto capace di inquietare non perché verosimile, ma perché possibile e nell’esperienza dell’orrore del racconto, il lettore fa esperienza del dolore.
È evidente come in Nefando, così come in Mandibula, primo motore della scrittura sia la chiara volontà di portare alla luce una violenza taciuta e dolorosa dove, d’altra parte, il ruolo assunto dal linguaggio è quello di dissacrare ed entrare violentemente nel terreno della scrittura canonica per trovare nuovi modi di raccontare l’orrore. Si impone l’urgenza di trovare risposta alla domanda: come si può raccontare ciò che disarticola il linguaggio, che lo pone di fronte alla sua inadeguatezza, ossia come si fa a raccontare l’esperienza del dolore?
Il dolore era intrasferibile e inesprimibile sotto forma di linguaggio. Il problema è che nessuno sa come dire quello che non si è detto mai. […] I limiti del linguaggio sono i nostri abissi.
Uno degli aspetti più interessanti e a tratti sorprendenti che caratterizza Nefando, che è un esordio, è non solo una scrittura estremamente matura, avanguardista e sperimentale di cui è chiaro l’ascendente lirico (la scrittrice nasce poeta), ma soprattutto un uso sofisticato dello strumento metaletterario: i romanzi di Ojeda germinano riflettendo su loro stessi.
«Niente. Questa è la risposta. A che scopo creiamo qualcosa? A che scopo parliamo, facciamo bambini, scriviamo, componiamo e dipingiamo? Per niente e per tutto. La fine è la creazione stessa.»
L’indagine linguistica e letteraria sull’esperienza del dolore è declinata nell’ambito della narrativa dell’orrore che, anche in questo caso, si trova a essere profanata. Più esplicito in Mandibula, in cui l’autrice passa in rassegna tutti gli scrittori che l’hanno iniziata e formata al genere, è chiaro che Ojeda parte dall’origine per ricostruire il genere. Unisce l’estremo terrore insieme all’altra faccia della medaglia, l’estrema bellezza, rompendo i confini tra i due, rendendoli osmotici e sovrapponibili, per produrre il sublime. Lovecraft, al quale Annalise in Mandibula dedicherà un saggio e tra i capostipiti del genere, affermava che l’orrore era generato dall’atmosfera e l’atmosfera era generata dal linguaggio. Un primo aspetto dunque di sradicamento e controtendenza sta proprio nel fatto di profanare il linguaggio lirico e collocarlo laddove non era previsto: nella narrativa dell’orrore (lo stesso fenomeno lo si riscontra nell’ambito cinematografico dove, a partire da Martyrs di Pascal Laugier, la regia horror si fa più sofisticata e sperimentale, basti pensare alle prove più recenti di registi come Robert Eggers e Ari Aster).
Dall’esperienza lirica Ojeda eredita la verità che il linguaggio non è mero strumento per raccontare una storia, è esso stesso parte della storia. Il fine dunque non è semplicemente impressionare il lettore, il fine è impressionare il lettore al punto tale da fargli provare sul proprio corpo l’esperienza del dolore. Il corpo si fa mezzo cognitivo, l’unico capace di condurre alla comprensione proprio perché il linguaggio, nel tentativo di farlo, si disgrega. Molto vicina all’eredità bolaniana, di cui troviamo evidenti citazioni, la violenza e la sessualità sono esperienze devastanti raccontate per denunciare l’orrore che si nasconde all’interno della società, ma di cui nessuno parla. Nefando infatti significa letteralmente, unendo la negazione ne al verbo fari «parlare», «indicibile, qualcosa di cui non si può parlare senza orrore o disgusto».
Ma non ho ancora detto di che cosa parla Nefando, forse perché mi rendo conto che non è importante la storia, la costruzione dei personaggi, dunque quello che solo esteriormente viene raccontato, ma è l’esperienza di lettura, l’esperienza generata da un linguaggio desacralizzato e performante, a essere la vera protagonista.
Nefando si concentra sulla vita di sei giovani che condividono un appartamento a Barcellona: Irene, Emilio e Cecilia Téran, tre fratelli ecuadoriani che studiano in città; Kiki Ortega, una messicana che sta scrivendo un romanzo pedo-pornoerotico; Iván Herrera, un messicano che sta studiando in un master di Scrittura creativa, El Cuco Martinez, un hacker di Madrid. Ma soprattutto si concentra sulla pubblicazione di un perverso videogioco, Nefando appunto, che include i video degli stupri subiti dai Téran durante la loro infanzia. Il videogioco viene pubblicato sul deep web, ma viene censurato perché i contenuti urtano la sensibilità dei videogiocatori.
Già da questa breve premessa è evidente il legame che si genera fra violenza e linguaggio, infatti tutti i protagonisti vogliono raccontare i traumi che hanno subìto e lo fanno con mezzi diversi: romanzi, disegni, linguaggio di programmazione, linguaggio audiovisivo. Il nome del gioco, che dà titolo all’opera, è proprio metafora dell’esperienza che si prova nell’incarnare il dolore, tutti tentano di capire e spiegare Nefando, ma nessuno ci riesce: dalle conversazioni degli utenti se in un primo momento emerge solo l’aspetto descrittivo – ossia spiegano cosa hanno fatto, cosa hanno visto, quali sono gli step del gioco –, poi ognuno finisce per raccontare un’esperienza diversa perché diverso è il modo in cui si approcciano al dolore, di fronte all’orrore che provano e che provocano: chi decide di smettere di giocare, chi invece prova gusto a continuare, chi per curiosità decide di resistere.
Lo scarto con la tradizione della narrativa dell’orrore dunque si concentra sulla posizione in cui la scrittrice decide di collocare l’orrore: non è generato da qualcosa di esterno – una presenza, un mostro, un demone, solitamente metafore che operano uno slittamento di senso per raccontare un disagio della società – Ojeda lo riporta dentro, lo avvicina, lo rende presenza interna, cancella quella distanza che al tempo era paura per l’ignoto, ma che oggi risulta essere confortante distacco. L’orrore raccontato in Nefando, come in Mandibula, è prodotto dal quotidiano, è con noi e in noi. L’orrore, l’indicibile, si nasconde nelle pieghe dell’inaspettato, di istituzioni sacre e da sempre rivestite da una promessa patinata di imprescindibile felicità, di luogo di protezione e sicura serenità: l’amicizia, l’amore, la religione ma soprattutto la famiglia.
“Lui è un uomo, non un mostro.” Hai capito cosa voleva dirmi? Beh, niente, tipo che non erano state vittime di una mostruosità ma di un’umanità.
I romanzi di Ojeda si basano sul realismo più crudo e presentano un obiettivo chiaro: indagare le manifestazioni dell’orrore nella società di oggi, rappresentare con glaciale lucidità la violenza e il dolore generati dal contemporaneo. E anche la difficoltà nella rappresentazione dell’indagine genera forma diverse di linguaggio, la difficoltà dell’esprimere l’esperienza del dolore genera forme linguistiche e strutturali che vogliono proprio rappresentare il vuoto rappresentazionale: dialoghi incompleti su modello teatrale (le interviste in Nefando o le sedute dallo psicologo in Mandibula, in cui ci sono solo le risposte e mai le domande); la Mostra delle mie rovine di Cecilia Terán, che non prende mai parola, perché non riesce, ed esprime il trauma attraverso il disegno; le sopracitate testimonianze della comunità dei videogiocatori; i capitoli del romanzo edo-pornoerotico che Kiki sta scrivendo.
Si può parlare nel caso di Ojeda di una narrativa dell’oltraggio e della disforia, recuperando le parole che Maria Corti aveva scritto per descrivere la poetica di Zanzotto, l’oltraggio operato dalla scrittrice è «lo sforzo, mediato dalla scrittura, di trovare schegge di significato» a un dolore «che appare inconoscibile in quanto incomprensibile». Raccontando esperienze devastanti ed estreme legate alla violenza e alla sessualità, subite poi durante l’infanzia, la scrittrice racconta qualcosa che va oltre la soglia della tollerabilità, rappresentando la disforia dei rapporti umani.
Il gioco psicologico che instaura poi con il lettore è perverso, è appunto terrificante: l’esperienza è come quella degli utenti di fronte al gioco, non sai cosa aspettarti, non riesci a capire all’inizio perché stai leggendo certe atrocità. È evidente che qui viene recuperata la lezione di Bataille – citato da uno dei personaggi, come indizio da parte dall’autrice per farci guardare oltre a quello che sta raccontando – per cui di fronte a questa paura atavica del soggetto, il soggetto è spinto verso un rifiuto dell’abietto, la cui controparte è l’attrazione, o verso un impulso violento, la cui controparte è il desiderio, capace di trasgredire i limiti che separano la passione dal dolore, la vittima dal carnefice o i genitori dai figli. Violenza e desiderio, abietto e attrazione, piacere e dolore, sono due facce della stessa medaglia, l’una contiene al suo interno l’altra ed è la società stessa ad aver generato questo paradosso.
Allora hai compreso che potevi ferire qualcuno per semplice curiosità antropologica, che la crudeltà che ti scavava dentro era più profonda di quanto credessi, che odiavi con grande facilità e che l’odio non era altro che il breve o prolungato desiderio di fare male.
La violenza in Nefando viene espressa in tutte le sue sfaccettature: dalle microviolenze psicologiche, agli stupri, alla pedopornografia. Come spiega Slavoj Žižek in La violenza invisibile da un lato l’aggressione corrisponde a una forza vitale, mentre la violenza «non è l’aggressione in quanto tale, ma il suo eccesso, che disturba il normale corso delle cose, desiderando sempre di più». È questo l’eccesso che troviamo nelle opere di Ojeda, la rappresentazione di una violenza oggettiva, quella che sottende un’apparente normalità e non è percepibile, poiché opera nel quadro dello stato di pace e, in questo senso, include non solo la violenza fisica diretta, ma anche le «forme più sottili di coercizione che impongono relazioni di dominio e sfruttamento, inclusa la minaccia della violenza». I rapporti di dominio, perniciosi e squilibrati, che regolano l’intera società si riflettono all’interno del più ristretto ma imprescindibile nucleo famigliare. Il desiderio si lega all’eros, l’eros alla violenza, la violenza al dominio.
Era un personaggio inverosimile, un personaggio consapevole che soffrire, proprio come godere, era un eccesso, e che l’eccesso era legato alla corporalità. […] Il corpo lo sentiamo nostro soprattutto quando ci fa male.
Ojeda, inoltre, cambia le aspettative sullo stato della vittima che diventa portatrice di violenza, perché la libera, la mostra e mostrandola rompe i rapporti di potere, ribaltando i ruoli, ancora più evidente in Mandibula i figli finiscono per cannibalizzare lacanianamente i genitori:
“Come cazzo fai a mangiare i tuoi genitori?”. Ed Emilio ha risposto: “togliendogli l’unica cosa che hanno: l’autorità”.
È indubbio che rispetto a Mandibula, Nefando ha più fragilità, momenti di rallentamento e sfilacciature (laddove vuole inserire altre istanze politiche ma che esulano dal focus del racconto, ad esempio la questione della pirateria come libertà dall’egemonia culturale oppure l’inserimento nel tessuto narrativo delle digressioni metaletterarie che devono ancora subire un processo di raffinamento, cosa che accade già in Mandibula); ma fin dal suo esordio è evidente come l’intento poetico di Ojeda è quello di generare spazi narrativi di tensione e disagio per riflettere su corpo, violenza e linguaggio e sul modo in cui questi tre elementi sono legati attraverso esperienze estreme.
Questi romanzi nascono dalla necessità di esprimere una realtà abietta, difficile da concepire e sostenere, ma non per questo irreale.
«Scusa se ti contraddico, ma i video caricati su quel videogioco non erano rappresentazioni, ma filmati reali.» «Non vedo la differenza. Per me non c’è niente di più reale delle rappresentazioni che facciamo di questo schifo di mondo.»
In fondo l’intento è quello che la accomuna a Lovecraft e a tutti i padri della narrativa dell’orrore: generare la paura che gli esseri umani provano di fronte a ciò che non si conosce, né si può conoscere, ma che si manifesta nel loro ambiente dietro una maschera di incertezza.
La scrittura, come citato nell’incipit, deve far cadere e lo fa raccontando l’indicibile: Ojeda profana i tabù sociali e li colloca al centro del “terreno sacro” della letteratura, spingendo il lettore a guardare quell’oltre terribile, per renderlo testimone oculare dell’orrore che esiste nella realtà di tutti i giorni. Gli eventi atroci raccontati sono gli elefanti di questa storia, ma ciò che interessa è sempre il dolore dell’acrobata caduto alle loro spalle:
La letteratura può distrarsi con gli elefanti, deve metterli in disparte e guardare l’acrobata caduto, interessarsi alla sofferenza, alla smorfia di dolore che fa mentre lo portano dietro le quinte perché stona, perché spezza l’armonia, perché oscenizza lo spettacolo. […] Scrivere ha senso, ripeté, solo se serve a guardare oltre gli elefanti.
Ojeda con i suoi libri ha deciso di desacralizzare il linguaggio, rappresentare l’indicibile, disturbando, destabilizzando e perturbando con l’intento di far emergere tutto quello che l’etica, la morale, le strutture di pensiero sociale vogliono nascondere, ma più l’indicibile resta indicibile, più si fa mostruoso e invisibile.
In fondo, a ben pensarci, Ojeda scrive perché il vero mostro da sconfiggere è il silenzio.
«[…] Ci sono parole per tutto il silenzio che verrà?»
Ringrazio Alessandro Polidoro per la copia omaggio e per aver portato in Italia Mónica Ojeda, a mio parere tra le penne più interessanti e potenti della narrativa contemporanea.
Fondamentale per la stesura di questa recensione è stata la lettura di Andrea Carretero Sanguino, Los lazos de la violencia: lirismo y horror en la narrativa de Mónica Ojeda [Úrsula, n.IV, 2020]